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Comunicati stampa

13 Luglio 2019

LETTERA A UGO GREGORETTI DI GIANFRANCO PANNONE

Caro Ugo,
ho aspettato un po’ di giorni prima di scrivere qualcosa dopo la tua dipartita.
Ci hai lasciato senza un sorriso e questo non ti appartiene. Negli ultimi mesi soffrivo nel vederti soffrire, sembrava che il destino si beffasse di te, così ironico, leggero, distaccato e ora costretto a fare i conti con un corpo malato.
Ultimamente erano cambiate molte cose. Fortuna che avevi vicino quella compagna straordinaria che è Fausta; e che Orsetta, Lucio, Bacchi e Pippo non ti abbiano mai lesinato il loro affetto, il loro amore ammirevole e commovente al tempo stesso.
Eri consapevole di essere un uomo fortunato e questo, credimi, non è da tutti. Solo alcuni si accorgono della propria fortuna, probabilmente quelli dotati di un forte senso dell’umorismo al cospetto della vita capricciosa e beffarda.
Non è esagerato scrivere che vederti era una festa. Quel tuo non prenderti troppo sul serio, che è delle persone serie, mi ha sempre affascinato, sedotto. Provavo anche una sottile invidia, perché, al contrario di te, io, invece, mi prendo piuttosto sul serio e sono anche suscettibile. Ognuno ha il suo carattere, ma non esito a dire che se negli ultimi anni sono un po’ migliorato (così a me sembra, almeno) lo devo anche a te.
Ho avuto la fortuna di conoscere tanti maestri da quando, ancora giovane, provavo a farmi spazio nel variegato e scivoloso mondo del cinema: Peppe De Santis, Ugo Pirro, Carlo Lizzani, Ettore Scola, Furio Scarpelli, Vittorio De Seta, Francesco Rosi, Luigi Di Gianni… Sì, una fortuna sfacciata, perché conoscere tutti questi grandi autori, uomini prima che artisti, mi ha sì fatto sentire anche piccolo, ma sempre nella consapevolezza che ci fosse tanto da imparare, bastava stare in ascolto.
Ma con te, credimi, non era solo uno stare in ascolto. C’era di più. Prima di tutto un sincero affetto, che mi portava a considerarti più un fratello maggiore che un padre.
E poi le cose vanno prese per il loro lato buffo, questa era la tua semplice lezione. Bada bene che quel “semplice” per me non è affatto riduttivo. E’ già così complicata la vita… E allora perché non avvicinarsi al prossimo in modo diretto e divertito?
Più di qualcuno ha sottovalutato questo tuo talento, cui corrisponde tra l’altro il suo opposto, la complessità, che in te leggevo e leggo tuttora nel forte legame con la cultura letteraria, teatrale, musicale; quel mondo di arti dietro cui si manifestano senza filtri i desideri e le sofferenze umane. Dimenticavo la cultura politica.
Ecco, mi sto già prendendo troppo sul serio e ora ti vedo sorridere ironico dall’alto dei cieli (sono certo che ti sei meritato un posto in Paradiso).
Ritorno sui miei passi, con un ricordo dal tuo Controfagotto, irresistibile viaggio in Italia che anticipa di tanti decenni la moda attuale delle serie televisive.
Sono i primi anni sessanta e ti trovi con la troupe in un paese della Ciociaria che da tempo ormai sforna balie per le famiglie della buona borghesia romana. Il paese è vistosamente povero, cerchi qualche essere vivente e ti imbatti in un vecchio padre di famiglia che sta dormendo. Le case in mattoni e senza finestre sembrano comporre un pueblo messicano. Tutto è deserto e, rigorosamente in giacca e cravatta (proprio come Fellini sul set), ti ci aggiri come si può camminare in una Via del Tritone, rivolgendoti a quell’uomo semplice e dimesso come avresti potuto fare in città con un vigile urbano.
Ecco, quello sei tu, che con il consueto fare elegante e la voce inconfondibile mettevi tutti sullo stesso piano, l’aristocratico come il contadino, il politico come l’impiegato. Non facevi differenze nel tuo approcciarti al mondo e tutto questo trova solo una risposta: amore per il prossimo, appunto. Un amore laico, disincantato, mai sentimentale. E per questo ammirevole.
Eri diventato un volto televisivo riconosciuto da tutti (e Dio solo sa quanto questo ti abbia danneggiato con il mondo del cinema). C’era anche una punta di narcisismo nel tuo proporti come un personaggio, ma non solo. Poco prima di andartene mi hai detto che un modello per te è stato il grande Jacques Tati e mi dispiace di averti portato troppo tardi il cofanetto dei suoi film; vederlo all’opera con la sua mimica inconfondibile nei panni di Mounsieur Hulot avrebbe forse mitigato il tuo dolore.
Sta di fatto che avevi un gusto tutto tuo di piacerti e che questo tuo esserci di fronte agli spettatori rappresentasse specialmente un personalissimo vivere le vicende del mondo. Ti sentivi un testimone (testimone acuto e brillante, aggiungo), proprio come avevi fatto in modo spiazzante e divertito immergendoti da scanzonato cronista nel circolo Pickwick e viaggiando a Goldonia.
Ti ho beccato anche in una significativa apparizione hitchockiana in quel tuo splendido documentario che è Contratto. E’ il 1969 e la lotta dei metalmeccanici per l’accordo salariale sul lavoro si è chiuso finalmente bene dopo mesi e mesi di lotte sindacali. Gli operai della Fiat Mirafiori rientrano in fabbrica e tu ti mescoli tra loro, come un normale travet che fino ad allora ha scioperato per solidarietà con i proletari.
E’ stato bello averti riconosciuto, confuso tra tante tute blu nella fredda atmosfera di un quasi inverno torinese.
Questo eri tu, distaccato ma sempre presente, ironico ma sottilmente passionale.
Mi piace riportare qui un’altra tua testimonianza, questa volta cinematografica.
Il film è Omicron, opera unica e inconfondibile, che non tutti capirono quando uscì più o meno cinquant’anni fa. L’alieno, interpretato da Renato Salvadori, è inebetito sul suo lettino d’ospedale, ma, provocato dal flash di un fotografo, si rivela con la più tradizionale delle pernacchie. Nell’altra stanza c’è una conferenza stampa convocata proprio per il ritrovamento di quell’umanoide e sta parlando il grande luminare della scienza. Tra i giornalisti ci sei anche tu, che fai il verso a qualche saccente cronista televisivo dell’epoca. Il luminare, soppiantato dalla sonora pernacchia dell’alieno, è in evidente imbarazzo e fa uscire tutti i giornalisti dal suo studio, te compreso. Sta bruscamente chiudendo la porta e si fa in tempo a vederti mischiato agli altri e ormai fuori, con un sorriso appena accennato sul labbro. Il sorriso di chi si sta divertendo in quel momento, anche se è parte della messa in scena. Un sorriso “fuori onda”, che ho verificato rivedendo quel finale di scena fotogramma per fotogramma.
Ecco, quello sei tu, leggero, incapace di sottrarti dal divertimento della situazione e, credo, in quel momento anche consapevole di aver acchiappato il ciak giusto.
Chiudo prendendo un ricordo dal documentario che ti ho dedicato tre anni fa, Con Ugo. Ti chiedo del tuo eclettismo professionale e tu con il consueto umorismo rispondi: “Be, a parte le telecronache di calcio e la messa cantata, io ho fatto di tutto”.
Hai ragione, Ugo, mai prendersi troppo sul serio. Ma io ti considero, con mio padre, la persona più seria che abbia mai incontrato.
Ti abbraccio,
Gianfranco