Comunicati stampa
08 Luglio 2020
Addio a Ennio Morricone. Il ricordo di Stefano Reali
Con la scomparsa di Ennio Morricone finisce un’era.
E non solo per quello che riguarda i Compositori. Quello che è destinato ad essere rivoluzionato per sempre, con la dipartita di Morricone, è il concetto stesso di Autore. Oggi uno Sceneggiatore sa che potrà veramente proteggere il suo lavoro solo nel momento in cui riuscirà a diventare un writer/producer, e quindi non sarà estromesso totalmente almeno dal casting del suo prodotto, se non proprio dalla scelta condivisa di tutte le figure tecnico-artistiche, a cominciare dal Regista.
Lo stesso Regista, fino a pochi anni fa un padrone assoluto del set, nonchè della scelta inappellabile di tutti i suoi principali collaboratori, per tacere del cast, fino alla governance completa della post-produzione, è una figura professionale diversa, oggi che si trova costretto ad acconsentire ad una serie di esponenti della Produzione e del Broadcaster di “suggerirgli” un’ampia sequenza di decisioni che una volta erano un suo predominio assoluto.
Non parliamo dei compositori, che un tempo custodivano gelosamente la possibilità di avere l’ultima parola su tutto il loro lavoro, nel momento in cui venivano assunti. L’unico potere che aveva il regista, con loro, era quello di protestarli, o di tenere bassa la loro musica in mixage, in caso di esiguo gradimento.
Ecco, in questo clima di graduale perdita di controllo da parte degli autori “totali”, Morricone è stato probabilmente l’ultima Apoteosi dell’Autore Totale. Mentre tutti i compositori del mondo, o quasi, quando hanno molto successo e molto lavoro, usano avere uno stuolo di collaboratori, orchestratori, direttori d’orchestra e di coro, Ennio Morricone, fino al suo ultimo film, ha fatto tutto lui.
Dalla grafia della partitura, scritta rigorosamente carta e penna, le prove, l’esecuzione, il mixage, il montaggio della musica, e il mixage di tutto il film. Posso testimoniarlo, perché ho fatto diversi lavori con lui, alcuni dei quali, ahimè, mai realizzati, (un paio di commedie musicali).
Ho fatto il mio primo film con le sue musiche nel 1991, e poi ci ho lavorato ancora, in altrettanti film, nel 1995, nel 1998, nel 2002, e nel 2012.
Ma lo conoscevo da molto prima. Avevo seguito per qualche mese, da giovanissimo auditore, le sue lezioni di composizione al Liceo Musicale di Frosinone già nel 1973. Poi l’ho incontrato di nuovo nel 1982 sul set di “C’era una Volta in America”, dove facevo l’assistente alla regia, e di nuovo ancora nel 1986, a Los Angeles, dove aveva una nomination all’oscar per “The Mission”, mentre io ero nominato per un cortometraggio “Exit”. Nessuno di noi due vinse la statuetta ma mentre nel mio caso, era già un miracolo irripetibile ed incredibile essere anche solo arrivato fin lì, nel suo caso la mancata vittoria fu un’autentica frode. Perché oltre al fatto che “The Mission” è probabilmente la sua migliore colonna sonora ever done, il film che vinse come migliore colonna sonora, e cioè “Round Midnight” aveva delle musiche di repertorio jazzistico! Una bella beffa, visto che il titolo per esteso della statuetta recitava “Best Original Musical Score”. Ma di “original” c’era ben poco, in quella colonna sonora.
Lui ci rimase male, ma non si depresse troppo. Sapeva che era un appuntamento solo rimandato, dopo cinque nomination andate a vuoto. Morricone era uno di quegli autori che aveva la padronanza assoluta, e la priorità nella catena decisionale, di ogni fase della sua lavorazione. Si comportava come un maestro di pittura rinascimentale, ma con la differenza che nella sua bottega ci lavorava da solo. Perfino Raffaello e Giulio Romano avevano i loro “negri”, in bottega. Al contrario di loro, ennio si preparava da solo i colori, i pennelli, le tele, e dopo ore, giorni, e settimane di pittura, alla fine del lavoro trovava anche il tempo di spazzare per terra. Tutto da solo. Tornando a casa, subito dopo avere chiuso a chiave la bottega.
Quello che sto dicendo non mi è stato raccontato, non è mitologia, io l’ho visto con i miei occhi. Chiunque l’abbia conosciuto, lo sa. Morricone credeva nell’Artigianato Competente. Anche per questo odiava il concetto di ghostwriting, e detestava anche solo l’idea di fare orchestrare o arrangiare a qualcun altro la sua musica. Era disposto ad abbellire delle melodie altrui, con le sue orchestrazioni sempre audaci e avveniristiche, ma non avrebbe mai permesso ad altri di arrangiare le sue melodie. Anche l’arrangiamento, diceva, era musica.
Ora, se si può dire che la partitura è la sceneggiatura della musica, si può senz’altro dire che l’arrangiamento e l’orchestrazione sono il Production Design della musica, e la Direzione d’Orchestra e il mixage sono la Regia della musica.
Morricone era un ‘maestro’ in tutti e tre questi campi. E anche se il suo gesto direttoriale non era proprio quello di Pappano, i suoi professori d’orchestra sapevano esattamente come interpretarlo al meglio.
Ne sono la prova gli oltre trecento concerti dal vivo, con orchestra sinfonica, che Morricone ha eseguito in tutto il mondo, come direttore. Eh sì, perché alla tenera età di settant’anni, Morricone, ha pensato bene di esordire come direttore d’orchestra live. Lo ha scelto perché si sarebbe divertito moltissimo, ma soprattutto perché ha capito che l’attrattiva dei suoi concerti non era la sua musica, ma il compositore. Cioè lui.
La gente voleva vedere lui, più che ascoltare la sua musica.
Diventare una rock-star a settant’anni non è cosa da tutti. Riempire gli stadi di tutto il mondo, da Santiago del Cile a Tokyo, neanche. Lui ci è riuscito, a mio avviso, per la sua mostruosa competenza in ogni ramo del suo essere autore. La musica sinfonica ha avuto dei grandi orchestratori e direttori, ma che erano dei poveri melodisti, come Maurice Ravel, per esempio. Oppure ha avuto dei grandi melodisti compositori, come Chopin, che però era un pessimo orchestratore sinfonico.
Morricone sapeva fare tutto. E gli piaceva cambiare genere, avventurarsi nel campo da lui poco frequentato dello swing (famoso il suo score di “Amapola”) così come in quello del metal, o anche solo di sonorità elettroniche, a volte mischiate con quelle sinfoniche, inmettendo nell’orchestra delle innovazione timbriche inedite, dal fischio, alla voce di donna usata come strumento, o addirittura usando dei rumori, come accadde con “Indagine di un Cittadino al di sopra di ogni sospetto”. Il tutto sempre con la massima creatività ed originalità, battendo sentieri nuovi, instancabilmente, anche quando era diventato talmente ricco che avrebbe potuto smettere di lavorare, e continuare a mantenere se stesso, i suoi figli, i figli dei suoi figli, per tre o quattro generazioni.
La sua libidine compositiva lo spingeva a mettere il massimo dell’impegno, della serietà, dello studio, in qualunque film, anche a zero budget. E la sua integrità lo spinse a rispondere di no quando non si sentiva a suo agio. Disse di no anche a Stanley Kubrick, quando questi gli chiese di musicare Arancia Meccanica, ma commise l’errore di mandargli una copia lavoro del film con delle musiche già “appoggiate”. Morricone gli rispose che la musica “appoggiata” su quel film andava benissimo. Per cui non c’era alcun bisogno di scrivere una colonna sonora originale.
E Kubrick, come sappiamo, lo stette a sentire.
La cosa che può stupire è che Morricone era altrettanto bravo a comunicare i segreti del suo modo di scrivere, e a divulgarli, oltre che a metterli in atto nelle sue composizioni.
È stato il miglior divulgatore possibile del suo Sapere Estetico. E la padronanza di linguaggio, la capacità di spiegarlo anche al meno competente dei suoi ascoltatori, unita al suo umorismo romanesco con il quale spesso faceva ridere il pubblico, rasentava l’incredibile.
Mi è capitato di fare assieme a Morricone delle conferenze sulla musica da film, rivolte a non addetti, una ventina d’anni fa. In teoria io avrei dovuto “semplificare” i suoi concetti, e renderli comprensibili a tutti. Ma fu chiaro immediatamente che Morricone non aveva alcun bisogno di me. E così me ne stetti zitto in un angoletto, ad ascoltarlo, e a godermi il suo know-how, non solo sulla musica, ma sulla narrazione in genere. Ho ancora dei filmini, di quelle conferenze. Magari li posterò, per il piacere di riascoltare lui che parlava del suo lavoro. Mi sembrava di ascoltare Giotto che parlava di come mischiare i colori per dipingere. E mentre parlava, faceva spettacolo.
Non solo la sua musica era eminentemente narrativa, lo era anche lui.
Ed è proprio in questa sua capacità di fare storytelling (era anche un grande raccontatore di barzellette) con la sua musica, a volte con degli organici risicatissimi, ma “giusti” per il film, che ha reso sempre e comunque memorabili le sue colonne sonore, anche quelle meno riuscite (e ve ne sono diverse).
Morricone ha potuto eccellere in tutti questi campi, paralleli e contigui, ma non necessariamente facili da essere padroneggiati tutti insieme, grazie ad un suo stile di vita e di cultura, che lui ha seguito sempre indefessamente, da quando era uno studente di composizione talmente povero che doveva tracciarsi da solo la carta pentagrammata, con una forchetta e una boccetta d’inchiosto, per tutta la sua vita.
Lo studio.
Ennio Morricone non ha mai smesso di studiare. Pur contando molto sul suo istinto, e sul suo gusto musicale, sosteneva però che il segreto di un’Opera è al 10% Ispirazione, e al restante 90% Traspirazione.
Sudore, fatica, applicazione costante, continua. La percentuale di slancio creativo era minima, rispetto a quella che dedicava alla progettazione quasi architettonica, di quello che scriveva.
Non si stancava mai di scrivere, pensare, studiare, progettare, lavorare.
Semmai, si stancava, e si deprimeva, quando non lavorava. Questo, e solo questo, lo ha portato ad accettare di musicare più di cinquecento film, diseguali tra loro per aspettative artistiche e commerciali, dove potevano convivere allegramente le commediole anni ’60 e ’70 e i film impegnati di Pasolini, Bertolucci, Leone, i Taviani. Per tacere del suo sodalizio con Sergio Leone, che ha ridisegnato il lessico della colonna sonora cinematografica in tutto il mondo. Lo ha reinventato. Facilmente, e in modo fluido, scorrevole, senza sforzi, né dichiarazioni d’intenti.
Questa sua apparente “facilità” era frutto della sua competenza, del suo studio, e della sua preparazione, ripeteva con ostinazione, e forse con un eccesso di modestia, che però non fu mai falsa modestia.
Era vera.
Tutto questo suo rigore ha portato più di qualcuno a mettere in giro la voce che avesse un "caratterino". Non ce l'aveva. Era semplicemente un rigoroso. Si aspettava che le persone con cui entrava in contatto professionalmente avessero lo stesso rispetto per che lui aveva per il Tempo. Sia per il suo, che era ben poco, sia per quello degli altri. Si incazzava quando qualcuno gli faceva perdere tempo per motivi di superficialità, impreparazione, o cialtroneria. La musica purtroppo non è democratica. C'è chi eccelle, e chi no. C'è chi merita, e chi merita meno. C'è chi studia, si prepara, migliora se stesso come artista, e chi non lo fa. Questi ultimi spesso fanno perdere tempo, e qualità di lavoro, ai primi. È con loro, che Ennio tirava fuori il suo "caratterino".
Non era mai arrogante. Mai.
Mi è capitato di incontrare dei Grandi, nella mia vita. E di tutti gli incontri che ho fatto, credo che, insieme forse a Mastroianni, Ennio Morricone sia stato in assoluto l’artista più umile che abbia mai conosciuto.
Aveva un’umiltà che era direttamente proporzionale alla sua grandezza, davvero.
Ovviamente un artista di questa fatta non può essere un esempio per tutti, vista la compresenza di tanti talenti. Talmente tanti che, per dissetarli tutti, non aveva letteralmente il tempo di “godersi la vita”.
Morricone godeva lavorando.
La sua libidine era tutta lì, nella felicità che riusciva a dare a se stesso solo quando lavorava.
E a quella che è riuscito, in questo modo, a dare al mondo.
A tutto il mondo. Quelli che gli rimproveravano di fare musica “sempre uguale” non sapevano di cosa parlavano. Morricone detestava ripetersi, lo considerava una perdita di tempo, un’occasione mancata per poter sperimentare. Si può dire che in ogni film abbia cercato di sperimentare, di battere nuovi sentieri, irrefrenabilmente. Ma cercando sempre di intrattenere, divertire, emozionare. Non scriveva per sé. Perlomeno le colonne sonore, le scriveva per il pubblico. Ma ovviamente non poteva dimenticare i suoi severi trascorsi di compositore “colto”.
Questa sua capacità di essere un musicista pop e al tempo stesso raffinatissimo, nei suoi sessant’anni di attività, ha esaudito ogni genere di palati, anche quelli più fini, più schizzinosi, o più invidiosi (e ce ne sono stati). Basta solo dare un’occhiata alla sua sterminata filmografia, per non parlare delle oltre cinquanta canzoni da lui scritte, per accorgersene.
No, la sua musica non era “sempre uguale”. Era il suo personalissimo stile che veniva immediatamente colto da ogni ascoltatore, anche digiuno di musica, nel giro di poche battute, e a volte di poche note, e gli permetteva di capire chi ne fosse l’autore.
Se devo pensare a dei suoi omologhi in altre arti, mi viene da pensare a Ingmar Bergman e a Robert Louis Stevenson. Artisti “pop”, ma al tempo stesso colti e raffinati. Creatori di best sellers, e al tempo stesso prigionieri della loro bulimia creativa. Adoravano il pubblico, e dal pubblico sono stati adorati. Si sono cimentati in ogni tipo di narrativa, ma riuscendo sempre a far riconoscere la loro “mano”. Sono durati tanto, si sono divertiti tanto, e hanno divertito tanta gente, in tutto il mondo. Erano degli efficaci architetti del loro lavoro, ma al tempo stesso erano degli incredibili didatti della loro modalità di creare. Il manuale per scrittori esordienti di Stevenson è un must irripetibile per qualunque sceneggiatore. E la “Lanterna Magica” di Bergman è un manuale di regia travestito da autobiografia. Ecco quello che forse è mancato ad Ennio Morricone è stato il tempo di scrivere un suo Trattato.
Ma non poteva avere tempo di farlo.
Era troppo impegnato a sognare e a farci sognare.
Ecco, io credo che se in questo momento così particolare del nostro settore, qualche autore, Totale o no, dovesse riuscire a trovare un modo di farci sognare, avrebbe fatto bingo.
Ma è difficile che nasca. Abbiamo passato un punto di Non Ritorno.
Quella che qualcuno ha efficacemente chiamato la “dittatura dell’ hi-concept” sta letteralmente uccidendo tutte le molteplici fasi di lavorazione durante le quali un artista può limare, perfezionare, cambiare idea, rifare, modificare, e dare una forma compiuta, evoluta, alla sua opera. Capisco che non si possa tornare indietro, perché si toglierebbe troppo potere agli show-runner, ai broadcasters, e a tutti quelli che vogliono decidere se duecento ore di scripted funzioneranno o no, solo in base ad un “elevator’s statement” di quattrocento caratteri.
Morricone sarebbe scoppiato a ridere se solo avesse saputo dell’ esistenza del concetto di hi-concept, se mi perdonate l’anacoluto. Non avrebbe mai accettato di fare un trailer, icastico e sinteticissimo, di ciò che voleva comporre, solo per convincere un produttore a finanziarlo.
La sua scomparsa ha segnato la fine di un’era.
Un’ era in cui ci si poteva permettere di possedere tutte le fasi di creazione di un'opera, solo perché l'autore era talmente competente che poteva permettersi di farlo. E nessuo osava mettere bocca su come doveva realizzare la sua colonna (cosa che a Morricone è successa, e lui l'ha patita moltissimo. ) Un ‘era in cui il regista scopriva come “suonava” la colonna sonora solo nel momento dell’esecuzione dell’orchestra, e non prima, attraverso mille provini digitali, freddi come il metallo.
È la fine di un'era, e indietro non si torna.
Ma forse ci mancherà un po’ a tutti, quell’era in cui c'era chi aveva l'autorità, e quindi anche l'assertività, di difendere il proprio lavoro, frutto di anni e anni di studio, di applicazione, di confronto con il pubblico, dal pressappochismo di chi, pur avendo potere, non aveva la stessa preparazione.
Ecco, era con questi tipi di persone, che Morricone tirava fuori il suo "caratterino".